Essere o non essere infermiere, tesi - stereotipi e luoghi comuni

2.2 Tra stereotipi e luoghi comuni

L’ultima campagna pubblicitaria di una nota marca di automobili mostra come un bradipo si risvegli da uno stato comatoso grazie ad una minigonna vertiginosa sensualmente portata da un’infermierina, con tanto di cuffietta.

Questa è solo una delle tante proposte di infermiere seducenti che appaiono quotidianamente sui nostri schermi.

Le vediamo nei concerti pop a ballare con calze autoreggenti e crocerossa sulla fronte, le ritroviamo in teatro con la “divertente” Zita Fusco che ci propone un’infermiera in un “surreale lampo supersexy” al teatro Cristallo. O ancora si può assistere ad una farsa con una spiritosa parodia in cui “l’infermiera ha i bei capelli biondi e i tacchi a spillo di Barbie, e la rigida pettinatura del fidanzato Ken svetta sulla testa del medico in questione”.

Il Collegio IPASVI di Trieste ha ritenuto utile aprirsi ad altri linguaggi e discipline che aiutino a capire quali sono gli stereotipi che più frequentemente si collegano alla figura dell’infermiere e in quale misura il piccolo e grande schermo, che giocano un ruolo incisivo sull’immagine delle professioni, abbiano contribuito a dare dell’infermiere un’immagine ricca di luoghi comuni e non realistica.

Le professioni sanitarie sono ancora ampiamente influenzate da quel folklore e da quelle tradizioni che hanno caratterizzato le culture tradizionali.

L’immagine del medico e dell’infermiere proposta dai mass media può essere considerata un insieme di eroismo, amore, seduzione, erotismo.

La “sessualizzazione” della cura del malato non interessa solo la professione infermieristica, ma è comune alle professioni mediche in generale. “Immagine paterna e materna al tempo stesso, figura che nutre e protegge ma che può anche dominare […] dando vita di volta in volta alla tenera crocerossina che soccorre i feriti o all’infermiera che seduce, lega e frusta le sue vittime pazienti, impazienti solo di essere punite e poi consolate”.

L’infermiere e il medico nel proprio lavoro si rapportano quotidianamente con altri esseri umani, ma a differenza di altri professionisti devono confrontarsi con situazioni che riguardano gli aspetti più intimi del paziente.

Toccare ed esplorare il corpo di una persona, poterla osservare anche spogliata dai suoi indumenti, fare domande anche sulla sfera più intima, costituiscono dei privilegi che normalmente rimandano ad esperienze ben diverse, come quello della sessualità o dell’affettività.

La divisa che medici e infermieri indossano rappresentano dei potenti simboli rituali, utili a chiarire una situazione potenzialmente fonte di turbamento.

Meccanismi inconsci e fattori socio-culturali convergono nella connotazione sessuale del rapporto infermiere-paziente e della relazione terapeutica in generale.

Non a caso all’interno della commedia all’italiana di grande successo negli anni Settanta il filone delle infermiere scollacciate, con le sembianze di Gloria Guida, Edwige Fenech o Nadia Cassini poco vestite e con le reggicalze, centrava dei luoghi comuni che trovava in quegli anni spazio nelle professioni e nei luoghi di lavoro.

A questo proposito Salvatore Gelsi, docente di teoria della visione e sociologia del cinema all’Università degli studi di Ferrara, ha voluto ripercorrere l’immagine dell’infermiera proposta sul piccolo e grande schermo nel corso degli anni: il momento storico per il mondo mediatico ha una sua influenza, basti pensare alla Grande Guerra, l’evento bellico fu combattuto e vissuto anche attraverso i cinegiornali e la propaganda, e nelle comuni rappresentazioni cinematografiche le donne dei soldati erano quasi sempre infermiere.

Queste giovani donne venivano immortalate sorridenti e disponibili, tra la sofferenza di quei soldati feriti o mutilati, lontani da mamme, mogli, sorelle, fidanzate a patire il dolore.

Ruoli sintetizzati dal camice bianco e dall’accondiscendente premura che troppo spesso sfociava in amore. Sono tante le pellicole che come linea di sfondo hanno usato questa trama: “Ali” (1927) di W.A. Wellman dove sul fronte francese nel 1917 due piloti sono innamorati della stessa crocerossina, “Addio alle armi” (1957) di F. Borzage con Gary Cooper, tenente americano innamorato dell’infermiera inglese che morirà tra le sue braccia, “Tornando a casa” (1978) di H. Asby con Jane Fonda, infermiera che si innamora di un reduce del Vietnam paralizzato.

L’obiettivo è colpire il pubblico, interessarlo, catturare l’attenzione, evidentemente la parte emotiva e sentimentale si sono dimostrate più coinvolgenti che l’aspetto professionale della cura della persona.

Per quanto riguarda la televisione, sono gli spettatori i protagonisti indiscussi e quelli che decidono la promozione o la bocciatura dei programmi. Un telefilm per diventare serie, dopo le prime puntate pilota, deve ottenere immediatamente il consenso.

Inevitabilmente allora, i telefilm agiscono per luoghi comuni, per situazioni accettate, diffondendo comportamenti e atteggiamenti già diffusi e che presentano aspetti della realtà di secondo grado, quella che può in anticipo soddisfare le attese dello spettatore.

Infermiere belle, giovani, gentili e cordiali, con un cuore grande soprattutto per lasciare spazio all’amore, questo è il cocktail vincente per una buona serie televisiva, ma è anche vero che nel caotico reality che regna nei veri ospedali, l’unico aspetto che gli spettatori sono sicuramente ansiosi di riconoscere è la grande professionalità.

2.3 La parola agli infermieri

“Credo che si possa immaginare la frustrazione di chi, dopo aver studiato per affrontare una professione che in questi ultimi decenni è enormemente cresciuta per conoscenze, competenze, professionalità, veda tuttora quest'ultima lesa nella sua dignità dai luoghi comuni che continuano ad esservi scioccamente associati.

Nessuno pretende dalla stampa una funzione squisitamente educativa ma nemmeno la si vorrebbe così pronta a offrire il destro e ad ammiccare a un immaginario collettivo subculturale che tutti noi ci auguriamo di vedere un giorno scomparire.”

Le segnalazioni di indignazione tra le pagine delle riviste infermieristiche si sprecano. Infermieri delusi, stanchi e feriti nella propria immagine lanciano richieste d’aiuto a Collegi e colleghi.

E’ ormai noto a tutti che digitare la parola chiave “infermiere” equivale ad aprire un cassonetto pieno di rifiuti, tra tutte le cose buone ed utilissime anche immondizia web, fatta di immagini indecorose ed offensive per l’intera categoria. D’altra parte l’immagine dell’infermiera sexy che sprizza sensualità da ogni poro, non è esclusiva di internet.

E’ sempre stata, fin dagli albori della pornografia una sorta di icona, uno stereotipo che confonde la cura della persona con le attenzioni sessuali, che mescola il “sacro” della professione con il profano di una certa sua immagine pubblica.

L’IPASVI molte volte si è interessato della promozione della professione e a tal proposito ha indetto dei sondaggi per sentire l’opinione diretta degli infermieri.

Nel gennaio 2006 è stata posta la domanda:

“Qual è oggi il maggior ostacolo alla valorizzazione della professione infermieristica?”

Su un totale di 1260 votanti, il 37,61 % ha risposto uno scarso peso contrattuale, il 28,09 % la resistenza al cambiamento, il 15,55 % l’organizzazione del lavoro, il 15,31 % i problemi di coesione della professione e solo il 3,412 % la normativa di riferimento.

Grande rilevanza è stata data alla scarsa retribuzione, sicuramente se considerata al grado di autonomia e quindi di responsabilità raggiunto dalla professione negli ultimi anni.  

Alla domanda:

“Da cosa partiresti per migliorare lo status della professione infermieristica?”

Su 1248 votanti, il 46,63 % ha risposto una revisione dei modelli organizzativi, il 30,36 % ha proposto degli interventi legislativi nazionali, il 17,54 % un adeguamento delle piante organiche e il 5,448 % interventi legislativi regionali.

Interessanti sono state le risposte alla domanda:

“Quale fattore pesa di più sull’immagine sociale dell’infermiere?”

Su 1820 votanti, più della metà, ben il 53,35 % l’ha imputato agli stereotipi del passato, il 18,02 % all’influenza dei mass media, il 14,89 % all’esercizio professionale e il 13,73% alla capacità di autopromozione.

Purtroppo l’immagine dell’infermiere deve scontrarsi anche con una radicata svalutazione professionale, che troppo spesso viene proprio dai vertici politici.

Nel 2002 si è assistito a una clamorosa proposta sul ricollocamento professionale dei lavoratori della Fiat come infermieri. Tutto era  nato da un’incauta dichiarazione pubblica del premier che suggeriva di trasformare in infermieri gli operai della Fiat in esubero.

Tutti i Collegi IPASVI d’Italia si erano ribellati ad un simile scenario, peraltro fantasioso e irrealizzabile.

Non mancano peraltro parlamentari che, trattando problemi di ordine sanitario, affermano:

bisogna agire a tutti i livelli, dai più bassi ai più alti e cioè dal livello di portantini e infermieri fino al livello del direttore sanitario”.

Mettendo chiaramente sullo stesso piano infermieri e portantini viene rinforzata la concezione anacronista dell’infermiere “ultimo chiodo del carro sanità”. D’altra parte i primi responsabili di questo cambiamento culturale dovrebbero essere proprio gli infermieri.

Il mondo infermieristico è protagonista di un paradosso:

l’infermiere sa mediare, sa spiegare al cittadino la sua malattia e la relativa terapia, sa fare educazione sanitaria, sa spiegare la terminologia medica.

L’infermiere sa spiegare tutto ai suoi pazienti ma non sa “spiegare” se stesso alla società, il suo ruolo, il suo prestigio professionale.

“Gli infermieri sono la categoria più numerosa della Sanità e sono anche la categoria che, in proporzione, ha meno peso su stampa e tv.

Il problema non è solo quello di non essere nei media in negativo, ma il bisogno è l’opportunità di esserci da protagonisti in positivo. E’ arrivata l’ora per gli infermieri di investire risorse umane e professionali con la creazione di seri Uffici Stampa.”

Queste sono le richieste sempre più forti degli infermieri italiani.

Bisogna riconoscere che gran parte degli infermieri non sa promuovere la propria professionalità neanche sul campo. Preferisce seguire la più comoda via della rassegnazione piuttosto che intraprendere quella del cambiamento.

Troppe volte questo stato di frustrazione si ripercuote sul lavoro ospedaliero, su un’assistenza  sbagliata basata più sul “non posso” che sul “provvederò”.

E tutto questo contribuisce ad aggravare un’immagine già di per sé compromessa e a dare adito a tutte quelle insinuazioni riguardo la mancanza di professionalità.

Tra le pagine del nostro quotidiano cittadino periodicamente si fanno largo le varie segnalazioni di cittadini delusi dell’organizzazione sanitaria.

Quasi sempre le lamentele rivendicano la poca professionalità delle figure che operano all’interno degli ospedali.

Viene riportato in un articolo del 2003 la rabbia di una madre che si è vista negare da un infermiere, sempre che di infermiere si trattasse, un bicchiere d’acqua per sua figlia ammalata, con una secca motivazione: “fuori ci sono le macchinette”47.

Pochi mesi dopo un altro caso di “poca cortesia” da parte di un infermiere, il quale avrebbe “liquidato” malamente il famigliare di un degente senza rilasciare alcuna informazione alle sue richieste.

E ancora accuse di scarsa umanità e sensibilità dimostrate dagli operatori sanitari: “sarebbe opportuno che le politiche del personale, nell’interesse di tutti, si preoccupassero di delegare le mansioni di assistenza a persone civili, preparate, motivate e non ignoranti “.

Parole pesanti che dovrebbero far mettere in discussione gli infermieri stessi nel modo di porsi con quei cittadini da cui si richiede il rispetto.

“Le varie lettere di segnalazione sulle disfunzioni ospedaliere e sanitarie di Trieste non suscitano grandi effetti di miglioramento”, così esordisce un articolo del 26/04/2006  intitolato “Appello di un lettore a coloro che per primi assistono i malati: infermieri siate più disponibili”.

La persona in questione lamenta il fatto di dover sempre combattere ogni volta si chieda un cambio, una pulizia, ”vi pare che una persona, costretta a un’infermità possa trovare la forza per una riabilitazione se la costringete a essere senza dignità, la fate sentire irrecuperabile e buona solo per la morte” con queste dure parole gli infermieri vengono accusati di usare la “professionalità” per uccidere la “fratellanza”, come viene spiegato poche righe più sotto.

Risulta chiaro che il temine professionalità non viene associato volentieri all’infermieristica la quale viene ancora vista come una vocazione a cui una persona deve dedicarsi nel soddisfare i bisogni primari del paziente, quali igiene e alimentazione, dimenticando tutto quello che un piano assistenziale prevede.

Detto ciò rimane evidente il problema segnalato dal lettore, a cui pochi giorni dopo trova prontamente risposta il presidente IPASVI: “crediamo nell’assistenza quale pratica etica di sostegno alla persona sana o malata, volta a valorizzare quanto più possibile il soggetto ma anche le persone vicine a lui, come elemento di supporto essenziale.

Purtroppo tutto ciò si scontra con il rapporto annuale dell’Organizzazione per la Cooperazione e sviluppo economico: in Italia ci sono 5,4 infermieri ogni 1000 abitanti, rispetto a una media europea di 8,251.”

Quella della carenza di personale infermieristico è una triste realtà con cui i 320.000 infermieri italiani devono convivere. Non è certo una scusa a cui un infermiere deve appellarsi nel momento in cui si trova a lavorare in corsia ma è sicuramente una situazione che non favorisce un buon counseling tra infermiere e paziente.

Alla professione infermieristica va riconosciuto uno status di professione a pieno titolo e non sono sufficienti le leggi per ottenere ciò. “Non è pensabile che un infermiere laureato entrando in servizio in un reparto si adatti a raccogliere l’immondizia, o se serve anche a lavare i pavimenti, a fare da segretario, a compensare tutte le carenze organizzative: assenza di colleghi non sostituiti, assenza di personale ausiliario, di personale amministrativo…Riconoscimento di status professionale significa riconoscimento di competenze e conseguentemente di responsabilità.

Non si può pensare che per carenze di personale da un giorno all’altro un infermiere, che ha sempre lavorato in sala operatoria, venga trasferito in un reparto di medicina mettendo a rischio prima di tutto la qualità dell’assistenza del malato e poi il professionista stesso. Oltre a una maggiore autonomia, a monte ci vuole un cambiamento culturale”.

Questa è solo una parte di una lettera scritta da un’infermiera sulle pagine di una rivista infermieristica. Poche righe per capire che gli infermieri dovrebbero acquisire maggior consapevolezza della dignità della loro professione.

Il 12 ottobre 2006 è stata indetta a Roma una manifestazione da tutti i professionisti italiani, tra i quali in gran maggioranza, proprio gli infermieri.

Dodici anni dopo la grande manifestazione nazionale che determinò l'approvazione del profilo professionale, gli infermieri sono scesi di nuovo in piazza, chiedendo l'attuazione della riforma del sistema professionale.

La Federazione dei Collegi provinciali degli infermieri (Ipasvi) ha infatti aderito alla manifestazione nazionale promossa dal Comitato unitario dei professionisti in seguito al Decreto Bersani che prevede l’eliminazione degli Ordini professionali.

“Il CUP”, sottolinea l'Ipasvi in una nota, ''chiede al Governo di rispettare gli impegni assunti e di procedere alla riforma del sistema professionale, risorsa su cui deve contare un paese moderno ed efficiente, in linea con le normative che regolamentano le professioni nel resto d'Europa''.