Essere o non essere infermiere, tesi

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2. COSA NON E’ L’INFERMIERE

“Basta con lo stereotipo dell'infermiere che 'ciabatta' in giro per l'ospedale! Basta con l'immagine dell'infermiera sexy, poco vestita e disponibile, protagonista delle commedie erotiche degli anni '70 e ancora presente sul piccolo e grande schermo!”

Tratto dalla tesi di laurea e per gentile concessione di Lara Skarlovaj

A richiedere il cambiamento dell'immagine di questa professione in tv e al cinema in Italia sono i diretti interessati. In Italia l'opinione pubblica ha ancora una percezione inadeguata del ruolo e dell'attività degli infermieri.

Perchè sono ancora vivi luoghi comuni difficili da scardinare, nonostante la costante crescita di questa professione.

Un certo tipo di produzione cinematografica e televisiva presenta la figura dell'infermiere in modo addirittura offensivo, associandola all'erotismo e al sesso.

Neppure la fiction rende giustizia: i protagonisti della sanità continuano a essere i medici, a cui vengono affidati sempre i ruoli di maggior spessore.

Gli infermieri invece, nel migliore dei casi, vengono rappresentati come persone dal grande cuore, ma mai come professionisti con responsabilità e competenze. Anzi, appaiono frustrati, infelici e pettegoli. E questo ha fatto e continua a far male alla professione. Per anni  tanti stereotipi hanno allontanato i giovani dalla scelta di questo lavoro .

Diversa la situazione in altri Paesi.

La fiction made in Usa  si avvale di staff di consulenti per realizzare sceneggiature e copioni corretti nei contenuti. In questi serial, i medici, pur rimanendo ancora i protagonisti indiscussi, si confrontano costantemente e collaborano con gli infermieri.

E' ora che questi cambiamenti siano percepiti dall'opinione pubblica. L'IPASVI ''pretende'', un maggior rigore dai mezzi di comunicazione, per un'informazione corretta ai cittadini.

2.1 L’informazione inganna

Parallelamente all’evoluzione della figura infermieristica, è stata creata una serie di ruoli sanitari subalterni, con lo scopo di agevolare e collaborare con l’infermiere e altri professionisti, soprattutto dopo la soppressione dei corsi di formazione per infermiere generico, ormai figura in esaurimento.

Il graduale venir meno di una figura che potesse coadiuvare l’infermiere, ha di fatto lasciato un vuoto operativo, tanto più marcato quanto più l’infermiere procedeva sulla strada della professionalizzazione, facendo così nascere l’esigenza di trovare nuove formule per supplire a tale carenza.

Ciò ha comportato una graduale trasformazione della figura generica dell’ausiliario, con mansioni prettamente domestico-alberghiere e una breve formazione di base, verso quella degli Operatori Socio Sanitari, gli O.S.S..

Oggi, sul territorio nazionale, sono presenti un così vario numero di denominazioni di queste figure che , sulle prime può sconcertare, ma la ragione si trova proprio nel fatto che anch’esse sono cresciute e mutate a seconda delle esigenze che nascevano.

L’infermiere si rende comunque sempre responsabile della congrua attribuzione dei compiti, in base all’attenta analisi della situazione di ogni assistito, di cui deve conoscere la complessità e il grado di mutabilità del quadro clinico.

È l’infermiere infatti che rimane il protagonista indiscusso del processo di nursing, il quale prevede un’attenta analisi dei bisogni e la relativa pianificazione del processo assistenziale.

Fra infermiere e operatori si deve realizzare quindi un rapporto di collaborazione, supporto, sostegno, integrazione con l’obiettivo finale dell’efficacia, efficienza e qualità degli interventi.

Fatta questa dovuta premessa, bisogna ribadire il fatto che queste figure vengono molto spesso confuse tra di loro.

Troppe volte negli articoli di cronaca nera, la parola “infermiere” viene citata per indicare una qualunque figura professionale all'interno dell'ospedale.

Sono molti i titoli che, così ''sparati'' dai giornali, hanno lo scopo e la funzione di colpire l'attenzione dei lettori. “Infermiere”, nell'immaginario della gente semplice, sta a significare un camice bianco indossato da operatori sanitari non medici.

Neppure tutti i giornalisti conoscono la differenza tra, ad esempio, un tecnico di radiologia, un infermiere professionale, una vigilatrice d'infanzia, un OTA.

Quella dell'infermiere, insomma, è una figura nella quale quasi tutte le professioni sanitarie vanno ad identificarsi.

Questo studio vuole focalizzare l’attenzione su com’è stata presentata questa figura negli ultimi anni nella realtà di Trieste.

Analizzando vari articoli pubblicati sul quotidiano cittadino “Il Piccolo” a partire dal 2001, sono state ripercorse le troppe segnalazioni di malasanità, le calorose promozioni del corso di infermieri, e i difficili dibattiti su varie questioni sociali.

Ne è emersa una situazione estremamente caotica e molto conflittuale:

da una parte i responsabili del Collegio IPASVI pronti a difendere a spada tratta questa professione emergente, dall’altra i cittadini in prima linea delusi dall’inefficace organizzazione ospedaliera e giornalisti poco informati complici nel confondere le idee sulle diverse figure professionali.

Uno dei vari temi ricorrenti nelle varie pubblicazioni è la promozione della figura infermieristica. Il Movimento delle Donne di Trieste apre un Convegno: “Infermiere, una professione da valorizzare” e con lo stesso titolo si apre l’articolo pubblicato il 27/10/2001, nel quale viene ricordata l’importanza di rendere più appetibile la professione con stipendi adeguati e con la valorizzazione del ruolo, anche per sopperire al problema della carenza di personale.

“L’attività delle infermiere professionali va riorganizzata, soprattutto negli ospedali dov’è allarme rosso per il numero insufficiente di paramedici, costretti a lavorare in un’emergenza perenne.”

Già da questa presentazione iniziale emergono due termini alquanto discutibili, innanzitutto la denominazione “infermiere” con un chiaro sottintendimento alla figura ancora strettamente legata al sesso femminile, in secondo luogo il sinonimo “paramedico” fa ancora riferimento alla funzione ausiliaria dell’infermiere che aiuta il primario.

Sempre per il tema “promozione della professione” è intervenuta anche la Presidente del Collegio IPASVI, la dottoressa Maila Mislej ribadendo le opportunità di lavoro offerte dal corso universitario in scienze infermieristiche. In un articolo intitolato “Professione infermiere, richiesta e ben pagata” la dottoressa Mislej afferma “la normativa italiana riconosce l’infermiere come un professionista con elevate responsabilità e autonomia operativa, formazione universitaria (master e laurea specialistica) e sviluppo di carriera all’interno del sistema sanitario e universitario”.

Fa sentire la sua voce anche il dottor Flavio Paletti, Presidente del Collegio IPASVI che in occasione della presentazione del Patto infermieri-cittadini in un articolo del 12/05/2004 ripercorre la strada dell’infermiere nel lavoro sanitario: ”fra le tappe fondamentali di questo percorso figura l’abolizione del mansionario, che nel passato definiva fin nei minimi dettagli l’attività infermieristica mentre dal punto di vista formativo, la grande novità è stata invece l’istituzione della laurea in Scienze infermieristiche”.

Ma se da una parte questi bei discorsi potrebbero anche favorire un maggior interesse verso questa professione, una riqualificazione e un aumento del prestigio, dall’altra troppo spesso vengono soffocati da problematiche di carattere pubblico sicuramente poco stimolanti.

Il problema dell’inferiorità numerica è un tema che viene trattato anche troppo spesso negli ultimi anni, fino a sfociare in una vera e propria questione di Stato, quando nel gennaio del 2004 arriva la prima proposta di reclutare le infermiere dell’Est.

“A Cattinara mancano Infermieri? L’Azienda Ospedaliera chiama un’agenzia di lavoro interinale, che recluta in Polonia una cinquantina di professioniste e, dopo una verifica dei titoli professionali, le spedisce a Trieste”.

La questione ha fatto alquanto discutere, e nei mesi successivi le pagine sono state riempite da proteste e indignazioni riguardo le lavoratrici straniere.

Il sindacato Nursind a tal proposito ha rivendicato la grande responsabilità di un infermiere e l’importanza che viene data al contatto umano in questa professione, nonché il pericolo potenziale di un errore involontariamente commesso dalle lavoratrici polacche dovuto ad un’incomprensione linguistica.

Tra un susseguirsi e l’altro di botta e risposta, il Direttore Generale, il dott. Nicolai ha colto l’occasione per sferrare una freccia contro i neoassunti di casa nostra, affermando: “queste infermiere già esperte nella professione hanno richiesto molto minor tempo per essere ben inserite nei reparti di quanto non accada con i neolaureati, che sanno l’italiano, ma non sanno ancora lavorare”.

Si potrebbe pensare a questa constatazione come un incitamento per le nuove leve a farsi valere in campo o come un suggerimento per l’Azienda ad andare alla ricerca di manodopera fuori dai confini?

A dare una risposta ci pensa Sergio Callegari facendosi portavoce del pensiero giovanile:

“Da alcuni anni si è stabilito che per diventare infermiere devi frequentare l’università, per 3 anni. Ragion per cui ora non si trovano più infermieri. E credo bene! Vai a scuola fino a 20 anni per pigliarti un diploma e poi devi frequentare a spese tue l’università. I giovani a questo punto dicono: << Ma chi me lo fa fare?>> e si rivolgono ad altro”.

Continua poi nella lettera a chiedersi perché mai gli infermieri dovrebbero infognarsi nell’università e chi è “quel furbo” che glielo fa fare…per concludere in un altro articolo chiedendosi chi è proprio così “fesso” da diventare infermiere oggi.

Questi articoli si rivelano decisamente poco stimolanti e invitanti per i giovani che si trovano a decidere sul proprio futuro.

Non sono di aiuto neanche le disquisizioni riguardo la differenza tra O.S.S. e infermieri professionali, questioni che creano troppe volte malintesi e confusione sulla figura professionale.

Si legge su un annuncio di una Residenza per Anziani un’offerta di lavoro per “responsabile assistenza” con la qualifica di infermiere o O.S.S.:

la generalità lascia intendere che la scelta è poco determinante, quasi i due titoli fossero equiparabili.

“La persona selezionata” continua l’annuncio “si occuperà della gestione del personale, delle relazioni con le famiglie ospiti, degli accoglimenti, del monitoraggio dei servizi, dei rapporti con l’Azienda Sanitaria ed inoltre di proporre modifiche e/o miglioramenti dei protocolli aziendali33”.

Se un O.S.S. con 1000 ore di corso riceve tutte queste competenze, verrebbe da chiedersi (parafrasando le parole di Sergio Callegari): chi è quel fesso che si infogna all’università per diventare infermiere?

E di questa differenza sembra non volersene accorgere neanche l’Azienda Ospedaliera, troppe volte accusata di non saper gestire l’organizzazione dei servizi e dei reparti:

“Non si può pensare di risolvere il problema sostituendo gli infermieri con gli O.S.S., facendo finta di non sapere che queste figure sono complementari e non sostitutive”, così recita l’accusa della Cgil.

Il piano d’intervento per fronteggiare l’emergenza infermieristica adottato molte volte dall’Azienda è stato visto come un modo per aggirare il problema della necessità di profonde modifiche nell’organizzazione del lavoro. Un articolo pubblicato nell’ottobre 2002 recita:

“Infermieri: mille ore di corso per un posto che non c’è”.

E’ l’occasione per dar voce una volta di più al presidente del Collegio Flavio Paletti riguardo la figura dell’infermiere.

“Noto nuovamente e con rammarico che la professione infermieristica è confusa con il personale di supporto all’assistenza ovvero con operatori tecnici, operatori socio sanitari, ausiliari e, in alcuni casi, persino con le badanti”.

Continua con una breve presentazione del corso di laurea e con l’augurio di una più sentita collaborazione tra infermieri e giornalisti. Non tarda ad arrivare una spiegazione riguardo l’equivoco da parte del giornalista in questione:

“le sigle sono oscure (Ota, Oss, Adest…) e <<operatore socio-sanitario>> non solo occupa tutte le colonne disponibili nella pagina, ma dice anche poco a un lettore”.

La risposta è piuttosto spiazzante, un giornale di dominio pubblico invece di farsi carico della responsabilità di informare, di non lasciar spazio a equivoci, di chiarire delle questioni laddove nascano ambiguità, si limita a semplificare il tutto e diventare egli stesso motivo di equivoci per una questione di…spazio.

Il lavoro di tutti quei professionisti che chiedono solo il diritto di informare e essere informati, viene ridotto a un problema di impaginazione.

Non c’è che dire: l’informazione inganna!